Photograph: Neil Rabinowitz/Corbis

Articolo pubblicato su Il Giornale di Vicenza Novembre 2017

Dopo lo scandalo dei Panama Papers, che dal 2013 ha fatto conoscere alla pubblica opinione 11,5 milioni di documenti sui conti in paradisi fiscali off-shore, di Capi di Stato, celebrità internazionali e rappresentanti del ghota economico-finanziario, adesso sono stati svelati i segreti dei “Paradise Papers”, con la diffusione di 13,4 milioni di file su enormi flussi di denaro portati all’estero, che coinvolge, tra i ricchissimi, anche la Corona inglese. Ancora una volta a rendere pubbliche queste informazioni è stato il Consorzio Internazionale dei giornalisti di inchiesta (ICIJ), che riunisce 380 giornalisti di 96 media in tutto il mondo, attivi in 67 Paesi. Sono più di 2 milioni le società che utilizzano gli oltre 50 paradisi fiscali sparsi per il mondo, che custodiscono un tesoro calcolato dalla Tax Justice Network (organizzazione indipendente creata sotto l’egida del Parlamento Britannico) in circa 21.000 miliardi di dollari e in continua crescita. C’è chi, ad oggi, stima che questo tesoro nascosto abbia superato i 32.000 miliardi di dollari: per potersi meglio fare un’idea della enormità della cifra si ricorda che la somma dei Pil dei paesi G8 è di circa 35.000 miliardi di dollari. Si ipotizza che le mancate tasse per i paesi di origine ammontino ad almeno 500 miliardi di dollari all’anno. Le imprese finanziarie, quelle produttive, i grandi capitali possono muoversi liberamente in giro per il mondo, favoriti da una globalizzazione senza regole e possono sfruttare a loro vantaggio questa enorme zona d’ombra nella legislazione internazionale al confine tra operazioni legali e illegali, una zona grigia dove spesso confluisce anche il riciclaggio delle mafie internazionali e i profitti di molti imprenditori. Formalmente nessuno avrebbe frodato ma tutti avrebbero sfruttato la globalizzazione per eludere le tasse attraverso sofisticati sistemi di “ottimizzazione fiscale”. Lo si è sempre pensato o saputo, ma ora si sta drammaticamente dimostrando che chi ha di più paga meno in barba a chi avendo poco deve, anche per colpa loro, pagare troppo. Di fronte a questo ennesimo grave scandalo diventa prioritario, per favorire una maggiore giustizia sociale, dare il via al varo e al rispetto di regole internazionali attraverso le quali vengano di fatto resi non più praticabili i paradisi fiscali. Per ora, purtroppo dobbiamo constatare che sono dei privati con le loro ricerche a mettere in difficoltà i grandi evasori, ciò che gli Stati dopo anni di convegni, di studi e di promesse non sono mai riusciti a fare. L’unico timido tentativo è stato proposto dai grandi Paesi del G-20 che hanno deciso di dare mandato all’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), perché affronti, in modo deciso, il problema della lotta all’elusione ed evasione fiscale, richiedendo sempre più trasparenza sui conti e mettendo a punto precise norme nazionali e sovranazionali per combattere queste piaghe strettamente collegate tra loro. Ma l’OCSE anche con tutta la buona volontà e il prestigio di cui gode non è in grado di imporre e tanto meno di far rispettare delle regole che abbiano validità giuridica in tutti i Paesi del mondo. Queste sono certamente operazioni lodevoli ma senza alcuna possibilità di sbocchi concreti. E’ una ulteriore dimostrazione che è necessario e non più rinviabile rendere operative delle istituzioni internazionali-sovrastatali gestite secondo i principi della democrazia cosmopolita, per combattere in modo efficace e stabile elusione ed evasione. Istituzioni che oltre a mettere fuori legge i paradisi fiscali potrebbero introdurre delle norme cogenti, a livello globale, come, ad esempio, quella dell’obbligo di rendicontazione sulle transazioni internazionali già collaudata con successo in vari Paesi e una “Global Tobin Tax” da applicare in tutti gli Stati.

Orazio Parisotto Studioso di Scienze Umane e dei Diritti Fondamentali